Io da tanto

Quello che c’è fuori dal mio balcone alle sette di sera è un pezzo di cielo e città, scende presto il sole, tra ombra e vento, seduta, mi copro la faccia, come quella volta in cui mi insegnarono il tramonto con gli acquerelli.
Solo sedici euro e due bicchieri per un tramonto a qualsiasi ora del giorno.
Come il tramonto a Copenaghen, tra la pioggia e quaranta corone per ogni respiro.
Le più grandi decisioni si prendono nei momenti più brevi possibili, come quando dico a mia mamma che andrò via mentre mettiamo il mascara allo specchio e mi risponde che lei e papà non mangeranno più le patatine fritte, così saranno magrissimi quando torneremo a casa.
Mi piace l’idea del tornare a casa, è sempre stata la mia soluzione.
Sono sul bagnasciuga di un anno che sarà difficile, mi ricordo che ho scritto sul post-it accanto: “avremo qualcosa da raccontare” .

Stanze bianche. 

Io non voglio incontrarti per caso in qualche bar di gente ricca e che si finge tale. Sono ricca di voler esser grande e di scrivere parole senza pensare alla perfezione. E di vedere l’inchiostro sulle mani e tra di noi. Facciamoci qualcosa insieme, tra una frase o mezzo bacio, tra un gin lemon e io. È tutto okay, alla radio non ci sono canzoni che mi parlano di te, non è ancora l’ultimo treno della notte, non c’è ancora spiegare un’attitudine cantata lasciandosi dietro parole non molto importanti. È la mia scrittura poco chiara o la penna prestata per scrivere i nomi di chi respira ogni giorno, ma non sa di me. Ho capito che i dolori servono, a rinascere come qualcuno dice, ad un andrà tutto bene prima di chiudere gli occhi. Gli infelici dei sacrifici e io che ne scrivo, verranno ricompensati, mi convinco. Tre amiche e una Panda nera, alla radio le canzoni che attraversano il mondo senza darci ricordi troppo scomodi. Io che non smetto di pensare alle tue mani intorno ai miei fianchi. Quel giorno non di fronte al mare, non su un aereo per New York come nel nuovo libro di Levante. Mancano quaranta pagine per mettere fine a tre anni della mia vita scritta, anche bagnando di lacrime le maniche delle felpe. Zero rimpianti e tante ripetizioni, tanti vuoti e tante pause ancora in pausa. Quante scarpe tra mille sogni e quante volte ad immaginare oltre ogni presente. Ma ci sto, anche domani. Le persone non cambiano, non ti fidare, dice mamma che poi mi insegna a perdonare, quando c’è sangue, quando c’è amore. Mi zittisco perché penso che il silenzio sia un modo egoista di fantasticare, fare progetti, promesse e patti da rompere in qualsiasi momento. È la rubrica della notte quella su cui puoi contare, chiamare e piangere senza parlare. È la discontinuità che mi caratterizza, io resto un attimo, immediato per essere veri. Non sono mai andata via, mai da ciò che amo davvero. Ho perso delle persone, a volte potrei alzare un telefono, altre devo cercare nella memoria di chi l’ha amate con me. Zero malinconia, giuro. È l’ennesimo periodo del parlare poco e riflettere tanto. Studiare la vita senza paura, con la solitudine per scegliere, nuovi viaggi, nuovi consumarsi. Metto una linea sopra i miei errori per riconoscerli ancora. Per tornare ancora tardi quando non c’è luce nelle scale e scriverti che ci sono e che se bevi qualcosa è meglio.